Il Bambino invisibile

Una sensazionale storia vera

Manuel Bragonzi

Mi è capitato ieri sera, quello che mi capitava spesso da ragazzo, quando mi immergevo talmente in una lettura appassionante, ad esempio uno dei meravigliosi romanzi di Salgari, che la storia mi prendesse talmente tanto che andavo avanti per ore a leggere fino a perdere la cognizione del tempo: “ma abbiamo fatto cena o dobbiamo ancora mangiare?”.

Ieri sera però il libro che mi ha appassionato talmente tanto – IL BAMBINO INVISIBILE – non era un romanzo, ma una storia vera, ambientata nel Cile di Pinochet, nei primi anni Ottanta, in fondo un tempo per  niente remoto, almeno per la mia generazione che in quegli anni terminava i propri studi universitari e cominciava a diventare protagonista nella società. In un Cile di cui il mondo parlava e conosceva per la feroce dittatura fascista seguita alla breve parentesi socialista di Salvator Allende il primo leader marxista andato al potere con libere elezioni popolari. Il Cile degli anni settanta e ottanta grondava di politica, per la mia generazione. Era per noi il Cile degli Inti-Illimani, de “Il pueblo unido jamas sera vencido”, una delle poche canzoni che mi piaceva cantare a squarciagola.

Ma niente di tutto questo troviamo nel libro che ho letteralmente divorato ieri sera, ambientato in un villaggio senza tempo, abitato da una umanità triste, da “un pueblo” degradato dalla fatica durissima, dall’alcool, dal risentimento e dalla violenza, totalmente “disunito”. Un villaggio senza luce elettrica, senza servizi di alcuna sorta, dove l’unico avvenimento di rilievo che poteva parlare di una mondo lontano e diverso era il pullman che passava una volta a settimana e su cui pochissimi salivano. Un villaggio dove tutti sapevano tutto di tutti, ma dove tutti erano chiusi in un silenzio duro e ostile che anche il vicino di casa poteva diventare uno sconosciuto nemico.

Protagonista un bambino di cinque anni: “il bambino invisibile”, come recita il titolo del libro, un bambino di strada, uno come ce ne sono stati tanti, milioni, e ce ne sono ancora in America Latina e nel resto del mondo. Ma normalmente si parla di “Meniños de rua” nelle periferie di grandi città o agglomerati urbani; e si parla di bambini e ragazzi che vivono in gruppo sotto i ponti o in ripari di fortuna, dopo aver tagliato ogni legame con le loro famiglie di origine.  In Cile ce ne saranno stati sicuramente tanti a Santiago, la capitale. Ma qui, nel villaggio di cui parla questo libro, siamo a duecento kilometri da Santiago, in un mondo arcaico e lontano. Manuel il protagonista è un “bambino di strada”. Ma la sua strada è solo una strada sterrata che dal villaggio porta ad un bosco di eucaliptos e lui, Manuel, è piuttosto un “bambino del bosco”, che vive da solo, dorme ai piedi degli alberi, una sorta di Mowgli del Libro della Jungla, ma che vive più vicino agli esseri umani e quindi in maniera molto più dolorosa e sofferta.

Questo bambino viveva al’interno di una famiglia che lo ignorava totalmente, perché non era la sua famiglia se non per il fatto che considerava il vecchio padre-padrone come “il suo nonnino” che lo picchiava però ogni mattina quando si svegliava e che non si interessava a lui se non per questa dose di cinghiate giornaliere. Delle altre donne che vivevano in casa, la moglie del padre padrone sua figlia e la nipote, non sapeva chi fossero. Non ricordava nulla di sua madre fino a quando un vecchio del villaggio non gli fa capire che era stata assassinata dall’uomo che lui si ostinava a chiamare “nonnino”.  Allora i ricordi della sua  Isabel, uccisa sotto i suoi occhi, quando lui aveva tre anni, gli torna continuamente in mente, ricorda il suo vestito, ricorda i suoi capelli, ma benché non ricordi il suo volto, ricorda il suo grande amore per lui, un amore pieno vissuto fino a tre anni che aveva generato in lui un fiducia così potente nella vita che lo aiuteranno a sopravvivere nei due anni vissuti in quella non-famiglia e poi lo aiuteranno a vivere pienamente e in totale libertà, immerso nella natura per i tre anni successivi, dopo che avrà deciso di fuggire da quella casa che non era casa per rifugiarsi nel bosco, sentendosi amato dai grandi alberi e dai piccoli animaletti e dagli uccelli che li frequentavano. Mentre il testo scorre, il racconto ci immerge sempre più nei pensieri e nei sentimenti di questo bambino che per tre anni consecutivi vive da solo e all’aperto, sentendo la Natura stranamente simile alla sua carissima Isabel, la mamma che lo aveva generato e lo aveva intensamente amato fino ai suoi tre anni. E insieme a questo amore per la natura il sentimento di qualcosa o di Qualcuno che tutto univa e tutto reggeva, lui come le piante e gli uccelli.

Tutto il racconto scorre sul filo delle esperienze del bambino, a partire dalla sua percezione della realtà. Ma il lettore, che ero io ieri sera, non poteva non pensare a quel villaggio che sapeva di questo bambino che viveva da solo nel bosco, perché spesso grandi e piccoli lo incrociavano sulla strada sterrata, ma facevano finta di non vederlo. Manuel viveva nel bosco, ma ai margini del villaggio, e in occasione di una rovinosa caduta da una grande albero, immerso in un avventuroso gioco con un uccellino, si ritrova in realtà a cadere dietro una della case del villaggio stesso, abitata da una donna, anche lei esclusa da tutti, l’unica che mostrerà un po’ di affetto per lui. Come a dire: tra esclusi, ci capiamo! Anche la “sua” famiglia sapeva che lui vagabondava nel bosco. E questo per tre interi anni. Mai nessuno che lo avesse chiamato.

Fino a che, dopo circa tre anni di questa vicenda, quando il bambino del bosco di anni ne aveva quasi otto, non furono avvertite le forze dell’ordine che andarono a prelevarlo portandolo in un orfanotrofio, da cui poi verrà adottato da una coppia italiana. Il libro termina qui, non prima però di raccontare l’incontro, anch’esso casuale ma intenso, tra Marcello Foa, lo scrittore e Manuel divenuto ormai un adulto pienamente inserito nella società milanese, sposato e con figli. Senza questa parte finale, raccontata in prima persona dallo scrittore, si sarebbe potuti restare tentati dall’idea di essere di fronte ad un’opera di fantasia, triste e delicata, ma pur sempre fantasia.

Leggendo solo questo libro, pubblicato nel 2012 e fra l’altro fuori commercio – io l’ho potuto acquistare da un rivenditore di libri usati – non si saprebbe molto di quel cittadino italiano di oggi di origini cilene. Ed ecco allora in aiuto un altro libro, scritto da GRETA BELLANDO, Un’altra immagine di me. Adulti adottati oggi genitori: un percorso di narrazione” ed ETS del 2015. Al suo interno, al capitolo 4, si parla proprio di lui, ma come adulto adottato, genitore anche lui, padre di tre bambini; in un capitolo intitolato: “Attraverso il loro sguardo rivedo il mio da bambino”.

Manuel Bragonzi

Manuel Antonio Bragonzi, quello che è stato il bambino del bosco, è oggi un uomo maturo di 44 anni; scenografo e regista,  all’inizio del 2019 ha fondato Anfad – Associazione Nazionale Figli Adottivi, di cui è presidente, per aiutare altri figli adottivi. In questo 2020 con il suo contributo nasce LoveAdoption TV, un canale realizzato da adottati adulti per l’Adozione.

Giovedì 10 Dicembre alle ore 21.30 sarà ospite di Famiglie Adottive Insieme su una piattaforma digitale. Chi fosse interessato a partecipare a questo incontro potrà lasciare un messaggio sulla nostra pagina face book “Famiglie Adottive Insieme”

Franco Pignotti

 

 

 

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